domenica 31 agosto 2014

Marilyn Monroe

Carissimi lettori,

In attesa delle anticipazioni del n.86 di "Jamboree Magazine" di prossima uscita, pubblichiamo parte dell'articolo di Silvia Ragni dal n.78 luglio/settembre 2012

Marilyn Monroe: indimenticabile e immortale icona di stile, la star per eccellenza di tutti i tempi, si è fatta interprete di caratteristiche ben precise relative al suo look.

Divina sia nei jeans e camicia bianca indossati ne ‘Gli spostati’ (1961) come nei suoi leggendari abiti da sera, rimane saldamente impresso nell’ immaginario collettivo il suo stile fortemente caratterizzato e ricco di connotati altamente identificativi: i capelli biondo platino, il lipstick rosso fuoco, gli oufit che mettono in evidenza una femminilità prorompente con l’aggiunta di un tocco di classe naturale, del tutto spontanea. 


E se, pensando a lei, viene inevitabile chiedersi in che percentuale gli studios hollywoodiani abbiano contribuito a creare un personaggio e in quanta, per contro, la personalità spiccata e non comune di Marilyn ne abbia immancabilmente ridefinito i contorni, forgiandoli con la sua inconfondibile impronta caratteriale, è la stessa Marilyn a raccontare ironicamente aneddoti relativi al suo look negli anni in cui vagava di provino in provino, inseguendo il sogno di diventare un’attrice.


Nell’autobiografia ‘La mia storia’, infatti, la diva dedica un intero capitolo narrando come la già famosa Joan Crawford si autoproclamò sua ‘consulente di stile’, offrendosi di aiutarla ad affinare il suo gusto.

Citando una Crawford che le chiede di portarle la ‘lista del suo guardaroba’ allo scopo di ‘revisionarlo’ e di stilare un elenco per i suoi prossimi acquisti, Marilyn confessa candidamente di aver indossato, all’epoca, unicamente due abiti che intercambiava a seconda dell’occasione, uno bianco e uno grigio, aggiungendo: “per qualche ragione non riuscii a dire alla Crawford che aveva già visto tutto il mio guardaroba.”

Non compilerà mai quell’elenco, ed avrà successive notizie dell’affermata star di Hollywood solo in occasione della sua apparizione alla cerimonia degli Oscar, in seguito alla quale pare che criticò aspramente la Monroe considerandola ‘volgare’.

Ma il destino, per l’aspirante diva, ha in serbo una stravagante sorpresa: quella che la condurrà alla fama non in virtù del suo guardaroba, bensì delle schiette dichiarazioni con cui replica al clamore suscitato dal celeberrimo calendario in cui si mostrava, con lo pseudonimo di Miss Golden Dreams, in tutto il suo splendore e senza un vestito addosso; dodici scatti di cui uno, dopo averne acquistato i diritti per 500 dollari, verrà utilizzato da Hugh Hefner per la ‘centerfold’ del primo numero di una nuova rivista ‘for men only’ che, dal 1953 in poi, farà storia: Playboy sancisce il definitivo successo per Marilyn, che ignora i consigli dell’ufficio stampa della 20th Century Fox – da cui è scritturata- adducendo i motivi delle foto di nudo alla ‘fame’ e alle rate di un’auto ancora tutte da pagare, suscitando l’interesse e la simpatia del pubblico.
Nei primi anni ’50, il processo di trasformazione iniziato nel 1946 grazie al contratto firmato con la Fox è giunto a buon punto: Norma Jean Baker è ora Marilyn Monroe, il castano naturale dei capelli - prendendo a modello l’iconica  Jean Harlow- è stato schiarito dopo una selezione tra ben nove tonalità di biondo, prima che la scelta cadesse sul color platino entrato nel mito.

Grande fan della Harlow e della sua personalità di vamp dal sex appeal gioioso, Marilyn ottiene che sia Pearl Porterfield, la medesima hair stylist della protagonista di ‘The platinum blonde’, a decolorarle i capelli da quel momento in avanti.

La camminata ondeggiante, l’aria da (finta) svampita, una sensualità innata sono già segni distintivi della novella star che, esplosa nel 1953 con Niagara, riceverà nel genere della commedia brillante la decisiva consacrazione.

Fine conoscitrice di sé stessa e della sua personalità, Marilyn ha uno straordinario senso dello stile ed è ben consapevole della dicotomia che intercorre tra Norma Jean -  affetta da un costante senso d’abbandono, desiderosa di affetto ed approvazione - e Marilyn Monroe, la star, applaudita, richiesta, desiderata.
Offrendo una motivazione dei suoi eclatanti ritardi, nella sua autobiografia scrive: “La gente mi disapprova per questo mio essere una ritardataria cronica. Mi riprendono e mi spiegano che lo faccio perché voglio sembrare importante e fare un’entrata spettacolare. Questo in parte è vero, tranne che a desiderare di essere importante non sono io, ma Norma.”

Cinematograficamente, Marilyn si lega al costumista William Travilla, a cui la Fox affida il compito di curare la sua immagine a partire da ‘Il magnifico scherzo’ (1952).

Travilla firmerà i costumi di scena della diva in otto film: suoi, tra gli altri, l’abito rosso di ‘Niagara’ (1953), i vestiti di ‘Come sposare un milionario’ (1953), l’evening dress in lamè dorato dalla vertiginosa scollatura, lo scintillante abito tempestato di paillettes rosse e quello, famosissimo, color rosa shocking che  la Monroe sfoggia cantando ‘Diamonds are a girl’s best friend’, apparsi in ‘Gli uomini preferiscono le bionde’ (1953).

Di Travilla anche l’outfit in stile western di ‘La magnifica preda’ (1954) e il celeberrimo cocktail dress bianco dalla gonna plissettata che una folata d’aria calda, fuoriuscita dalla grata di areazione del metro, solleva in una memorabile sequenza di ‘Quando la moglie è in vacanza’ (1955).

A quest’abito è legato un episodio infelice dell’esistenza di Marilyn: Joe Di Maggio, presente sul set, si infuriò talmente in seguito alla scena della gonna svolazzante, da mettere fine al loro matrimonio con un litigio furibondo.

Il divorzio giunse poco tempo dopo, calando il sipario su un’unione durata neppure un anno.

Nell’estate del 2011, l’abito - appartenente alla collezione privata di Debbie Reynolds - è stato battuto all’asta per circa 5 milioni di dollari, una cifra record tra i costumi di scena della diva.
A Travilla, Marilyn affida il suo look anche fuori dal set: ‘Billy, dear, dress me forever’, gli scrive nella dedica riportata su una copia del suo calendario di nudo.

Tra i designer europei, è invece nota la sua predilezione per Emilio Pucci e per  Salvatore Ferragamo.

Un nome rimasto nel mito è poi quello di Chanel, che Marilyn pronuncia in una leggendaria battuta legandolo al suo profumo: “Di notte, indosso solo qualche goccia di Chanel n°5”. 

...continua su Jamboree nr.78 luglio-settembre 2012

in chiusura dell'articolo anche la discografia e filmografia di Marilyn



martedì 26 agosto 2014

The Dreamers

Carissimi lettori,
oggi vogliamo dare un tributo ad un nostro collaboratore che ha dedicato le sue forze ad una passione musicale  riproponendo i successi di  ELVIS PRESLEY con il complesso “The Dreamers”

Ricordiamo che: (dal sito http://www.dreamersband.it/) 

Elvis Aaron Presley, Icona del XX secolo, unico e insostituibile Re del Rock’n’Roll, è certamente l’artista più popolare nel mondo e vanta il maggior numero di dischi venduti nella storia della musica.

Elvis è scomparso nel lontano 16 Agosto 1977, ma grazie al sostegno e all’affetto di milioni di fans rimane senza dubbio l'artista più celebrato al mondo.

I suoi brani memorabili sono ancora in grado di scalare le classifiche di vendita in diversi paesi nonostante siano trascorsi oltre 30 anni dall’addio alle scene.

I Dreamers, mossi da un’instancabile passione, da oltre 15 anni cercano di ricordare il periodo che maggiormente ha caratterizzato la crescita dell’artista, esibendosi in uno show carismatico che riprende lo stile degli indimenticabili anni ‘70 al fine di rendere omaggio, con il loro tributo, alla carriera di un mito intramontabile.

 
Il gruppo, attivo dal 1995, presenta uno spettacolo impostato secondo la formula dei live show di Elvis Presley.


La musica dei Dreamers si identifica nel Rock’n’Roll e nel Blues con frequenti divagazioni in pezzi noti e meno noti di Elvis, curandone scenografia, movenze e suoni.


Ne risulta una performance di forte impatto scenico che riporta il pubblico presente allo show alla magica atmosfera che si respirava a Las Vegas negli anni ’70!

Con oltre 500 performances all’attivo, i Dreamers si sono esibiti in prestigiosi teatri, locali e piazze del Nord Italia e recentemente sono stati ospiti al programma di RAI2 'PIAZZA GRANDE'.

Collaborano attivamente con l‘Elvis Friends Fan Club Italia annoverando tra l’altro alcuni indimenticabili concerti insieme a membri originali della band che accompagnò Elvis nei concerti dal 1969 al 1977 quali il chitarrista ‘JOHN WILKINSON’, il cantante e grande amico ‘CHARLIE HODGE’, il bassista ‘JERRY SCHEFF’, lo storico batterista DJ FONTANA, il quartetto Gospel ‘THE IMPERIALS’ e le coriste soul ‘THE SWEET INSPIRATIONS’.

Il 2007 ha visto i Dreamers protagonisti di un eccezionale evento musicale insieme ad un orchestra di 16 elementi ed ai 7 coristi originali di Elvis e nel 2010 raggiunto il proprio culmine artistico esibendosi in due incredibili ed unici show accompagnata da un orchestra di ben 50 elementi diretta dal Maestro Mauro Bernasconi.... questo grandioso spettacolo è stato riproposto a grande richiesta nel Maggio 2013 al prestigioso Teatro Manzoni di Milano dove ha ricevuto strepitosi consensi di critica e pubblico...




     ed ora, purtroppo una dedica da parte mia 


                Domenica 27 luglio è venuto a mancare Stefano Bardelli, classe 1969, 
                leader del gruppo The Dreamers e presidente dell'ELVIS Fan Club of 
                Italy di Milano. 

                Oltre ad essere un caro amico era anche da molti anni uno stretto 
                collaboratore della nostra rivista JAMBOREE.

                Ultimamente avevamo unito maggiormente le forze allegando la sua 
                newsletter alla rivista, dando così ai soci del club un prodotto più ricco 
                e completo.

                Stefano era anche il creatore ed il curatore del nostro sito JAMBOREE

                Un'altra splendida persona che ci lascia prematuramente.

                Ciao Stefano.

venerdì 15 agosto 2014

PETER O'TOOLE

Carissimi lettori,
oggi vi offriamo un'anteprima dell'articolo a cura di Agostino Bono che appare sul n° 85 della nostra rivista  che potete richiedere collegandovi a www.jamboreemagazine.com 



Lost Stars of Hollywood

E’ stato uno dei più eccentrici, carismatici e tormentati attori della storia del cinema.
Esponente del realismo britannico del dopo guerra, arrivò ad Hollywood negli anni sessanta.

Da allora divenne anche famoso per la sua vita sregolata e la propensione al bere, in privato e durante le feste a cui era solito partecipare.

Col tempo, ciò avrebbe inciso negativamente sulla sua carriera e salute.

Peter Seamus O'Toole nacque a Connemara, Contea di Galway, Irlanda, il 2 agosto 1932.

Ancora bambino, si spostò con la famiglia a Leeds, in Inghilterra, dove frequentò la Saint Anne's Catholic School.

Non fu uno studente modello e mai gli piacque la severità delle suore che gestivano l'istituto.

In particolare, non gli andava a genio che dessero bacchettate sulla mano sinistra per costringerlo a scrivere con la destra.

Due erano invece le sue passioni: il giornalismo ed il teatro.

La seconda finì con il prevalere sulla prima.

Dopo un breve periodo nella Marina Reale Britannica, come addetto alle telecomunicazioni, presentò domanda per essere ammesso ai corsi di recitazione dell'Abbey's Theatre Drama School di Dublino.

L'esito fu negativo, a causa della sua non perfetta pronuncia irlandese.

Deciso comunque a seguire la propria vocazione, presentò una seconda domanda alla Royal Academy of Dramatic Art nel 1952.

La celebre scuola inglese lo accettò e lo fece diventare un grande attore teatrale e, poi, cinematografico.

Negli anni cinquanta si fece apprezzare in produzioni teatrali, tratte da opere di Shakespeare: King Lear (1955), Otello (1956), Pigmalione (1957) e Amleto (1958).

Dopo alcune partecipazioni a serie per la televisione inglese, esordì sul grande schermo nel 1960 in Il ragazzo rapito, tratto dal romanzo di Robert Louis Stevenson.

Seguirono altri due buone prove in Furto alla Banca d'Inghilterra (1960) e Ombre Bianche (1960).

La svolta avvenne nel 1962, quando David Lean gli offrì il ruolo dello scrittore inglese, T.E. Lawrence, in quello che si sarebbe rivelato il migliore dei suoi film, Lawrence D'Arabia.

La pellicola ricevette 10 nomination agli Oscar e ne vinse sette, compresa quella di miglior film.

 Peter, nominato nella categoria miglior attore protagonista, perse a favore di Gregory Peck che concorreva per Il buio oltre la siepe (Robert Mulligan, 1962).

Nonostante ciò, la prova del giovane attore britannico ebbe un grande impatto su critica e pubblico e lo lanciò nell'olimpo delle star.

Gli anni sessanta furono i migliori dal punto di vista professionale.

In quella decade, Peter ottenne altre tre nomination agli Academy Awards.

In particolare, in Becket ed il suo re (1964), nei panni di Re Riccardo II, al fianco di Richard Burton; Il Leone d'Inverno, ancora una volta nei panni del sovrano inglese e con Katherine Hepburn nel ruolo della regina Eleonora; e Goodbye Mr Chips, buon remake, in versione musicale, di Addio Mr. Chips (1939, Sam Wood).

La decade fu caratterizzata da altri buoni ruoli che consolidarono il suo status di leading man: Lord Jim (1965), nei panni del marinaio, condannato per codardia e radiato dalla Marina Inglese, che vive solo per riscattare la propria immagine; Come rubare un milione di dollari e vivere felici (1966), ultima commedia di William Wyler, dove aiuta Audrey Hepburn a rubare una statua da un museo di Parigi; e la Notte dei Generali (1967) che lo vide nei panni dello psicopatico generale Nazista Tanz e riunirsi con Omar Sharif, con cui aveva recitato in Lawrence d'Arabia.

La classe dirigente (1972) fu il miglior suo film degli anni settanta nel ruolo di un altro psicopatico, Jack Gurney, erede del Conte di Gurney, che all'inizio crede di essere Gesù Cristo e poi Jack lo Squartatore.

Anche questa volta, rimase tale, in quanto i giurati gli preferirono Marlon Brando, Don Vito Corleone, nel capolavoro di Francis Ford Coppola, Il Padrino.

Seguirono anni difficili, caratterizzati dalla mancanza di buone proposte, dovuta anche alla dipendenza dall'alcol e alle non buone condizioni di salute, ed al divorzio dalla moglie nel 1979, l'attrice irlandese Sian Phillips, che aveva sposato nel 1959  e dalla quale aveva avuto due figlie.

Nonostante ciò, riuscì a trovare l'ispirazione giusta e fornire due buone prove in Zulu Dawn (1979), ricostruzione storica della battaglia di Isandlwana, fra l'esercito inglese e la nazione Zulu, e Io, Caligola (1979), storia, mal riuscita, dell'imperatore romano, interpretato da Malcom Mc Dowell.

Peter interpretò Tiberio, ma non riuscì a sollevare le sorti del film.

Due commedie, Professione pericolo (1980) e L'ospite d'onore (1982), ridiedero smalto alla sua carriera e gli valsero altre due nomination agli Oscar.

Erano già sette ed il fatto di non aver convinto nemmeno questa volta i giurati degli Academy Awards gli fece perdere le speranze di poter, ormai, vincere una statuetta. 

Sfortunatamente, i film che accettò di interpretare in seguito non furono all'altezza dei precedenti e soprattutto, delle sue capacità. Unica eccezione fu il ruolo del tutor scozzese, Reginald Johnston, del giovane imperatore Pu Yi, nel pluripremiato L'ultimo Imperatore (1987), del nostro Bernardo Bertolucci.

In un film che conseguì nove Oscar, Peter rimase stranamente all'asciutto.

Di lì in poi, una serie di ruoli di supporto ed una maggior presenza in produzioni televisive americane.

In due di queste, Giovanna d'Arco (1999), nelle vesti del vescovo Cauchon, e Hitler: the Rise of Evil (2003), in quelle del Cancelliere tedesco Paul von Hinderburgh, ottenne una nomination agli Emmy Awards.




                                      ..continua sul n°85 di Jamboree Magazine.

sabato 9 agosto 2014

The Impressions

Carissimi lettori,
oggi vi offriamo un'anteprima dell'articolo a cura di Roberto Giuli che appare sul n° 85 della nostra rivista  che potete richiedere collegandovi a www.jamboreemagazine.com 

Gli Impressions, insieme a gruppi come Falcons e Sheppards, rappresentano al meglio un anello di congiunzione tra il doo-wop degli anni cinquanta e il soul dei sessanta.

Richard e Arthur Brooks (tenori) e il baritono Sam Golden (tra l’altro membro originale dagli esordi fino a oggi), sono tutti di Chattanooga, Tennessee; si trasferiscono giovanissimi a Chicago, dove formano i Roosters, insieme a un altro loro concittadino, Fred Cash.

Presto si uniscono Jerry Butler (1939), nativo del Mississippi ma subito trasferitosi nella windy city, distretto di Cabrini – Green e l’eccellente tenore Curtis Mayfield (1942 - 1999), chicagoano; i due hanno fatto parte dei Northern Jubilee Gospel Singers, nonché d’alcuni gruppi doo-wop come Quails (Butler) e Alphatones (Mayfield). 

Il manager Eddie Thomas, fa in modo che il gruppo sia contattato dalla Vee-Jay, la quale pubblica nel maggio 1958 il loro primo successo, For Your Precious Love, un’intensa ballad guidata dalla voce baritonale di Butler con qualche venatura gospel (n.3 delle classifiche r&b e n.11 in quelle pop).

Anche il retro, Sweet Was The Wine, in linea con atmosfere più tradizionalmente doo-wop, ha il suo momento di gloria, divenendo un classico dello street-corner singing.
                                                                     
Alla fine del 1958 Butler lascia per intraprendere la sua carriera solistica (avrà notevole successo con brani come He Will Break Your Heart del 1960 e scriverà, tra le altre cose, I’ve Been Loving You Too Long con Otis Redding nel 1965); viene
sostituito dall’ex-Rooster Fred Cash e la leadership del gruppo passa nelle mani di Curtis Mayfield, che metterà a frutto il suo talento per creare una serie di brani che restano nella colonna sonora degli anni sessanta, da Gipsy Woman (1961), a brani prettamente soul come la spensierata It’s Allright (1963) e la splendida People Get Ready (1965; eccellente risulta la versione acappella dei Persuasions, mentre Jeff Beck e Rod Stewart ne faranno una bella cover negli anni ottanta) o più tendenzialmente gospel come Amen (1965, ripresa da Otis Redding), fino a brani in cui la forza musicale si sposa con l’impegno politico, come I’m So Proud (1964) e We’re A Winner (1967), tutti incisi per la ABC-Paramount.

Nel frattempo Mayfield mette la sua penna a disposizione di Major Lance (Monkey Time, 1963), Jan Bradley (Mama Didn’t Lie, 1963) e Gene Chandler (Rainbow, 1963).





domenica 3 agosto 2014

Kaiser Special: A new criterion of motoring

Carissimi lettori,

oggi vi offriamo un'anteprima dell'articolo a cura di Clivio Tesorini che appare sul n° 85 della nostra rivista  che potete richiedere collegandovi a www.jamboreemagazine.com 


Henry J Kaiser è stato un uomo poliedrico, dalle mille idee e risorse; impegnato nel settore dell’alluminio, della sanità, nonché costruttore di navi da guerra (1940-45) e, ovviamente, di interessanti automobili passate alla storia per “l’anatomic design” e le innumerevoli eccentricità costruttive quali, per esempio, le famose “sliding doors” (porte scorrevoli) della Kaiser-Darrin 161.

Dopo aver fondato una società insieme a Joseph Frazer, verso la fine del ’45, i due businessmen iniziano a sviluppare un’automobile che verrà concretizzata a partire dall’anno successivo ed offerta al pubblico solamente nel 1947. 

Stiamo parlando della Kaiser Special, una sedan con quattro porte mossa da un propulsore a sei cilindri.

Sopra la Special troviamo poi l’allestimento Custom il quale, motoristicamente, non si discosta dal precedente, ma dal punto di vista costruttivo denota una maggiore cura ed innumerevoli optional esclusivi come il cruscotto in vera pelle, l’orologio, i posacenere ridisegnati, alcuni scomparti interni maggiorati, luci di cortesia ed un massiccio impiego di modanature cromate.

Grazie anche ad un mercato in piena crescita, già dal primo anno di attività le vendite della Kaiser-Frazer appaiono decisamente considerevoli, portando subito la factory alla ribalta nazionale!          

              Con il passare del tempo, però, le “Big Three”, (Ford, GM e Chrysler) riconvertono i propri impianti alla produzione civile, sfornando quantità di automobili davvero consistenti ed obbligando tutti i costruttori minori a sostenere ritmi concorrenziali elevatissimi così, intorno all’inizio degli anni ’50, la piccola Factory americana subisce un repentino calo delle vendite e, nonostante gli innumerevoli sforzi/restyling dei propri prodotti, nel 1955 chiude definitivamente i battenti nel Nord America per spostarsi in Argentina; senza però prima confezionare “ai posteri” un mezzo tanto esclusivo quanto unico: stiamo parlando della Kaiser Darrin 161...
Eccola in tutto il suo splendore!

SLIDING DOORS

Se avrete modo di contemplare una Kaiser Darrin dal vivo, state pur certi che non vi ricorderà né vi farà venire in mente nessun’altra automobile. 

Grazie al cofano lungo, alla calandra piccola e sinuosa (Pursed lips grille) alle porte scorrevoli ed alla capote bloccabile in tre diverse posizioni, la DKF 161 può infatti assomigliare solamente a se stessa!

 L’anteriore, che sembra esteticamente pronto a “darvi un bacio”, risulta infatti inconfondibile nonché tipico di questa stravagante creazione a stelle e strisce.

Assemblata in soli 435 esemplari, la maggioranza di essi appaiono tuttora circolanti, grazie sicuramente alla carrozzeria in vetroresina, alla concentrazione delle vendite in California ed alla bontà artistico-meccanica del progetto.

Ricca di accessori standard (come i sedili sdoppiati, la strumentazione sportiva ed il cambio “on the floor”), la Kaiser-Darrin stacca un prezzo di listino gravitante attorno ai 3.700 dollari, lievemente più alto della rivale Corvette, ma comunque allineato ai modelli d’entrata di marchi blasonati quali Cadillac (Series 62).

La prima auto sportiva americana di produzione di massa assemblata con la vetroresina (il prototipo è nato antecedentemente alla ‘Vette, NdA.), non è dunque mai stata dimenticata e, grazie all’affidabile 161 c.i. (2.6L) L-6 90 cavalli “Hurricane” di derivazione Willys, nonché ad un cambio manuale a tre marce, la Kaiser-Darrin appare ancora in grado di trasmettere emozioni inimitabili, entrando di fatto nell’olimpo del motorismo USA degli anni ’50, anche grazie alla limitatissima produzione durata appena un anno.

L’esemplare che potete ammirare sulle nostre pagine è il trentatreesimo costruito, nonché uno dei primi cinquanta ad aver ricevuto la particolare colorazione “Champagne White” con abbinamento di interni rossi appositamente personalizzati (Button Seats).

Posseduto dallo stesso proprietario per ben cinquantasei anni, nel 2012 è stato sottoposto ad un restauro totale in grado di riportarlo al proprio antico ed originalissimo splendore, sottolineato dalle sole 38.000 miglia documentate all’attivo.

Foto: Courtesy - RM Auctions