Carissimi lettori,
Nel 1959 nei fumosi club di Londra alcuni musicisti inglesi di jazz che anni addietro erano stati i pionieri del nuovo stile “moderno” stavano divulgando il verbo del blues di Chicago; poi con la comparsa dei primi mods i locali erano sempre più frequentati da ragazzi infatuati da questa musica forte ed eccitante e tra di loro c’era anche qualche musicista in erba che saliva sui palchi per suonare lunghe improvvisazioni assieme ai propri beniamini.
oggi vi offriamo un'anteprima dell'articolo a cura di Luca Selvini che appare sul n° 88 della nostra rivista che potete richiedere collegandovi a www.jamboreemagazine.it
Nel 1959 nei fumosi club di Londra alcuni musicisti inglesi di jazz che anni addietro erano stati i pionieri del nuovo stile “moderno” stavano divulgando il verbo del blues di Chicago; poi con la comparsa dei primi mods i locali erano sempre più frequentati da ragazzi infatuati da questa musica forte ed eccitante e tra di loro c’era anche qualche musicista in erba che saliva sui palchi per suonare lunghe improvvisazioni assieme ai propri beniamini.


In ottobre firmarono per la Decca e furono presi sotto contratto dal manager Johnny Jones della London City Agency che li fece esibire in giro per la Gran Bretagna apparendo spesso anche alla TV e nel novembre dello stesso anno finalmente uscì il primo singolo Sweet Mary/If I Ever Get My Hands On You dove la facciata A era un arrangiamento di un vecchio blues di Leabelly e il retro un frizzante esempio di beat contaminato dallo ska, il ritmo in levare che da poco era giunto in UK per merito degli immigrati giamaicani; in questo pezzo si evidenziano già la bravura di Lord all’organo e la maestria di Griffiths alla chitarra.
Nel mese di febbraio del ’65 arrivò il secondo 45 giri Oh My Love/Big City, quest’ultima una composizione originale di Jon Lord costruita su un tempo in levare dall’incedere gustoso, mentre l’estate successiva venne dato alle stampe un terzo disco contenente Goodbye Sisters – un brano beat un po’malinconico cantato da Wood in maniera emotiva – e che sul lato B ospitava un ritorno al blues jazzato con l’ottima She Knows What To Do, caratterizzata sempre dagli interventi di Lord all’organo e dal feeling di Griffiths, un grande chitarrista blues che al pari di altri eroi dimenticati di questo strumento come Stan Webb o Kim Simmons, andrebbe rivalutato.

Sempre in primavera la Decca pubblicò l’EP Jazz In Jeans che conteneva buone rivisitazioni in chiave jazzistica di These Boots Are Made For Walkin' di Lee Hazlewood (portata al successo da Nancy Sinatra), le strumentali A Taste Of Honey e Our Man Flint che riflettevano le abilità musicali del gruppo, e l’originale a firma di Jon Lord Routine morbida e spumeggiante, con la calda voce di Wood in evidenza; un nuovo singolo, edito nell’agosto del ’66, mostrava sul lato A I Feel Good, un capolavoro di freakbeat con una splendida chitarra fuzz, il basso ossessivo di Pool e la ritmica precisa di Keef Hartley, mentre il retro giocava la carta della sperimentazione con Molly Anderson's Cookery Book, uno strano pezzo con un’atmosfera sospesa fra rocksteady e pop, condita con una spruzzata di jazz e resa con abile perizia dai cinque.
Novembre è il mese dell’uscita del loro unico, stupendo LP intitolato Art Gallery, prodotto dal “mago del blues inglese” Mike Vernon, una miscela di blues, R&B e pop progressivo bene espressa soprattutto nella stupenda Keep Lookin', carica di soul e con echi di primitiva psichedelia (l’introduzione con un tocco d’organo “liturgico” e la voce sacerdotale ne sono un buon esempio), questo pezzo venne registrato anche da Baris Manco in Turchia, dove gli Artwoods erano molto popolari e avevano un grande seguito; da segnalare nel disco anche il jazz-blues di Walk On The Wild Side, che sfoggiava tutto il talento organistico di Lord, la potente rilettura di un classico del soul come One More Heartache, la strumentale Be My Lady, presa dal repertorio di Booker T, il freakbeat spumoso e allegro di Things Get Better e la lenta e intensa Stop And Think It Over, con una chitarra eccelsa che non temeva confronti con gli altri chitarristi blues del periodo.
Il 1967 si aprì tra qualche difficoltà, le scarse vendite del disco indussero la Decca a “scaricare” la band e il manager Johnny Jones rinegoziò il contratto col gruppo che accettò di firmare con la Parlophone per la pubblicazione di un nuovo singolo che vedrà la luce in aprile; il disco in questione, What Shall I Do/In The Deep End rifletteva in pieno il cambiamento
avvenuto nella scena musicale orientata ormai verso la psichedelia evidenziato soprattutto nel lato B, una composizione originale firmata con lo pseudonimo di Paul Gump dall’incedere ipnotico dove il suono cupo dell’organo e il drumming ossessivo di Hartley viravano verso tonalità scure e tenebrose; il nuovo corso portò però a delle incomprensioni all’interno della band, Lord iniziò ad introdurre negli arrangiamenti partiture classiche, in particolare rielaborazioni di Bach e Tchaikovsky incontrando l’insoddisfazione e il disappunto soprattutto di Keef Hartley che alla fine cedette alle pressioni di John Mayall ed entrò nei Bluesbreakers alla vigilia di un tour in Danimarca; il suo sostituto, un tale di nome Colin Martin, aveva fatto parte degli Ingoes e si adattò presto agli altri che al ritorno in patria, sempre su suggerimento di Jones, furono persuasi ad adottare una nuova denominazione per il gruppo; seguendo l’esempio di gangster film di successo come “Bonnie & Clyde” e la moda anni trenta che stava imponendosi nelle boutique divennero così i St. Valentine’s Day Massacre, che ben presto trovarono accoglienza con l’etichetta Fontana.